Un Manifesto per le Alpi Apuane In evidenza
Premessa
Siamo in uno dei comprensori più fragili e, al tempo stesso, più belli del nostro Paese. Le Apuane, dette Alpi per il loro aspetto aspro e accidentato, che le fa assomigliare così tanto alla catena montuosa più importante del nostro continente, si sviluppano parallelamente al Tirreno per una sessantina di chilometri, da nord/ovest a sud/est, tra i bacini del Magra e del Serchio. Guglie ripidissime, antri, circhi glaciali, grotte, solchi ruvidamente incisi dalla potenza dell’acqua; e ancora, toponimi che ci parlano di un’antropologia locale profondamente segnata dall’attività estrattiva e, in particolare, dalla monocoltura del marmo. Un luogo di frontiera, impervio, eppure straordinariamente ricco di valori, di tradizioni, di identità, di cultura. Per questo, quando al culmine della lotta in difesa del Piano Paesaggistico della Toscana, tra il 2014 e il 2015, le associazioni ambientaliste, i comitati, i cittadini, hanno compreso che sulla tutela delle Apuane si sarebbe consumata una delle battaglie decisive e paradigmatiche della tenuta del Piano, tutti assieme abbiamo deciso di costruire una nuova, grande alleanza. L’unità è sempre superiore al conflitto – ci ricorda in modo convincente Papa Francesco nella sua enciclica Laudato Si’. Per questo, ciascuno di noi ha deciso di rinunciare a qualcosa della propria storia e della propria identità associativa, per rafforzare la causa comune. Per questo, è nata ormai un anno fa l’eccezionale esperienza che va sotto il nome di Coordinamento Apuano (luogo d’incontro, di condivisione e di elaborazione politica in cui convergono le maggiori associazioni ambientaliste nazionali – Legambiente, Italia Nostra, WWF, CAI, FAI – e la Rete dei Comitati a difesa del Territorio, coi suoi vivaci nodi Social di Salviamo le Apuane e Salviamo le Alpi Apuane).
Per questo, infine, sei mesi fa, quando abbiamo capito che avremmo dovuto presidiare e difendere costantemente gli esiti dell’approvazione del “Piano Marson”, attraverso la sua effettiva messa in opera e attuazione sui territori, abbiamo indetto gli Stati Generali delle Alpi Apuane, per il prossimo quattordici maggio. Un appuntamento in cui invitare, senza remore né timidezze, tutti gli attori sociali e tutti gli osservatori della vicenda apuana. La battaglia che stiamo conducendo non può più essere, infatti, confinata nell’angusto spazio delle vertenze locali. Questa è e non potrà che essere, d’ora in avanti, una grande questione nazionale.
I sintomi della distruzione
Tutto, sulle Apuane, ci parla di marmo. Dal Carrione all’Altissimo, dal basamento divorato del Sagro, fino alle tristi lapidi che ci ricordano le stragi nazifasciste dell’estate 1944. Quello che non è pacifico ammettere, anche a noi stessi, è come sia stata possibile un’accelerazione tanto distruttiva del prelievo dell’oro bianco. Un prelievo che ha sostentato placidamente le popolazioni locali sin dall’epoca romana, e che ha trovato, potremmo dire per inerzia, un equilibrio suo proprio fino almeno agli anni Sessanta del secolo scorso. Poi, la rivoluzione dei trasporti su gomma e l’avvento del filo diamantato e delle tagliatrici a catena nell’estrazione, hanno decuplicato la pressione sui già fragili habitat apuani. Le cifre sono impressionanti. Sul comparto insiste, infatti, una cava ogni tre chilometri quadrati e questa densità cresce a sette cave per kmq nella sola area di Carrara. Sono quasi 600 in tutto, di cui 150 attive, un centinaio delle quali nel solo bacino carrarese. Se all’epoca dei Malaspina (1750) si cavavano circa 5 mila tonnellate/anno di materiale, oggi le quantità annue prelevate assommano a circa 5 milioni (!) di tonnellate. Negli ultimi cinquant’anni, in altri termini, si è cavato quanto non si era riusciti a fare nei precedenti duemila! E i segni della devastazione non sono solo quantitativi. I dati ufficiali di Assindustria ci parlano, infatti, di percentuali di prelievo per blocchi che si attestano stabilmente sul 25%. Il resto è detrito, scaglie, polveri di marmo e terre di cava. A Carrara peraltro il dato scende al 21% di blocchi, con cave che nell’ultimo decennio non hanno prodotto che detriti. In parole povere, un modello neocoloniale, a dir poco predatorio, che ha alimentato il business internazionale del carbonato di calcio, impiegato come sbiancante nell’industria dei materiali edili e della cosmesi (dentifrici in primis). Come si comprende bene dalla crudezza di questi dati, nulla che possa evocare gli scenari emotivamente rassicuranti del distretto dello “Statuario Michelangelo” né, tanto meno, quelli della filiera corta.
Elia Pegollo, uno dei padri dell’ambientalismo apuano, qualche tempo fa, ebbe a dire giustamente: “qui da noi, muoiono e scompaiono prima i luoghi dei ricordi …” Come dargli torto se si guarda, ad esempio, al destino della vetta delle Cervaiole, letteralmente capitozzata dall’omonima attività di cava. Le ferite al paesaggio apuano non si limitano tuttavia alla skyline dei crinali; si estendono, invece, a macchia d’olio in ogni area sottostante i fronti di cava. Sono i cosiddetti ravaneti, vere e proprie discariche a cielo aperto, costituite dalle terre e dai detriti tracimati dal piano di escavazione. In passato, quando non era ancora arrivato il filo diamantato a tagliare come il burro il marmo, i ravaneti erano fatti essenzialmente di scaglie e col tempo si stabilizzavano. Quasi ri-naturalizzandosi come petraie, permeabili all’acqua e, quindi, spugne utili ad una ricarica efficiente e fluida delle falde idriche. Oggi, invece, le sofisticatissime tecniche di taglio creano come scarto primario una micidiale miscela di polveri fini: la marmettola. Vere e proprie nuvole di pulviscolo bianco che, assieme alle terre di cava, s’insinuano ovunque. In ogni interstizio, in ogni anfratto, impermeabilizzando i ravaneti, rendendoli suscettibili a frane, creando torbide lattiginose nei torrenti, aggravando il rischio idrogeologico nei centri abitati e, con la penetrazione nel sistema carsico, inquinando le sorgenti. Infine, peggiorando la qualità dell’aria, già compromessa dall’intenso viavai di mezzi pesanti che portano il materiale dalla montagna alla costa, solo in parte attutito dall’apertura della nuova Strada dei Marmi. Il caso dei beni estimati di Carrara chiude questa rassegna di sintomi dell’incipiente distruzione delle Apuane. Qui è un editto, del 1° febbraio 1751, emanato allora dalla Duchessa Maria Teresa Malaspina per sopire le rivendicazioni di alcuni facoltosi utilizzatori abusivi di cava, che rischia di condizionare, a distanza di due secoli e mezzo, il dibattito giuridico sulla natura “comunitaria” degli agri marmiferi carraresi. La legge 35/2015 della Regione Toscana, infatti, avrebbe meritoriamente riaffermato il carattere pubblico di quei beni ascritti all’estimo nel Settecento, ma il Governo ha impugnato la legge presso la Corte Costituzionale e gli industriali, sulla base dei contratti di acquisto, hanno rivendicato la proprietà privata di quei beni. Il rischio è di veder trasformate le concessioni in titoli di piena proprietà. Una sorta di regalìa di beni comuni, che non sarebbero stati nella disponibilità della Duchessa Maria Teresa. Nutriamo la speranza che la Corte Costituzionale riconosca la natura “comunitaria” dei beni estimati, ma se anche ciò non dovesse accadere, riteniamo che la Regione possa e debba riaffermarla inserendo le cave nella categoria delle miniere.
Un’eredità naturale e culturale unica al mondo
Non dobbiamo dimenticare, tuttavia, l’unicità di questo territorio. Uno scrigno prezioso, capace di contenere da solo oltre il 50% della biodiversità regionale. Una stazione meteo/climatica singolare, con dati pluviometrici imponenti e uno sviluppo di habitat che vanno dalla macchia mediterranea alla faggeta di alta montagna, fino a praterie primarie e secondarie di eccezionale rilievo ecologico, ricche di endemismi botanici al centro di studi e pubblicazioni dei più autorevoli ricercatori del mondo. Ancora, un’area carsica tra le più importanti d’Europa. Grotte, antri, doline, solchi, inghiottitoi, abissi, per un sistema che conta oltre mille siti d’interesse geologico. L’Antro del Corchia, tra questi, vanta dei veri e propri primati planetari: 70 km di sviluppo complessivo, 1200 metri di dislivello altimetrico, 1800 metri di estensione longitudinale, per una profondità massima di 805 metri. Su queste vette vivono, tra le altre specie, l’aquila reale, il falco pellegrino, il biancone e il gracchio corallino, che col suo inconfondibile becco rosso è diventato il simbolo del Parco. Già, perché tutta questa ricchezza naturalistica, dal 1985 sarebbe sotto la speciale giurisdizione del Parco Regionale delle Alpi Apuane, recentemente insignito del titolo di Geoparco Globale della rete Unesco (2011-2015) e riconosciuto dalla Rete europea Natura 2000 come un eccezionale insieme di habitat tutelati da svariati SIC e da una ZPS addirittura più estesa dei confini del Parco. Usiamo il condizionale in questo caso, non solo e non tanto perché l’Ente Parco in 15 anni è riuscito a fatica ad approvare un Piano, concepito nel ‘98 e già superato, tanto che dovrà subito adeguarsi alla nuova LR 30/2015, quanto per l’enorme criticità rappresentata dalle sue “aree contigue di cava”. Un unicum giuridico, nel suo genere. Un ossimoro, per altri versi, che permette alle aziende di cavare in aree intercluse nel Parco, come se il Parco e quell’esteso sistema di SIC/ZPS non esistessero. Ebbene, il Coordinamento Apuano si pone oggi l’obiettivo politico di cassare l’incongruenza statutaria, andando alla progressiva chiusura di queste 70 cave e alla conseguente inevitabile sostituzione dei vertici dirigenziali del Parco. Vertici che, in questi anni, ci sia concessa questa franchezza, si sono distinti più per la progettazione pilota di frantoi industriali nel cuore della montagna, che per la solerzia nella conservazione della natura. Parafrasando l’ottimo Maurizio Maggiani, il tempo del cavatore dalle braccia forti, col volto arso dal sole, che sognava mentre lavorava, consapevole del fatto che col suo lavoro ben fatto avrebbe dato vita e sostanza alla sua stessa utopia, quel tempo, dicevamo, è finito. Oggi, sulla montagna apuana, l’occupazione giovanile è in caduta libera, le statistiche sulle ludopatie delle fasce sociali più esposte alla crisi sono tra le più alte d’Italia. La progressiva perdita d’identità di questi luoghi, che si associa a un’imperdonabile perdita di umanità nelle relazioni, ha creato spaesamento. Che poi, a ben vedere, è esattamente l’antipode etico del paesaggio. Negazione inconscia e profonda del valore identitario del proprio patrimonio territoriale. I tesori geo/naturalistici, culturali, antropologici che abbiamo poc’anzi descritto non possono perciò essere dissociati da un grande progetto di rinascita civile delle Apuane. Per questo, per la sua unicità planetaria, occorre tutelare il paesaggio apuano. Per questo va finalmente regolata l’attività estrattiva, limitandola ai marmi di eccellenza, che sono la vera “materia prima” per una effettiva filiera corta nelle lavorazioni. Per questo, ancora, occorre inaugurare una stagione di bonifica e riqualificazione dei siti estrattivi abbandonati e dei ravaneti, stabilizzando i versanti e dando finalmente corpo ad un’azione di effettiva prevenzione del rischio idrogeologico, così severo a queste latitudini da aver determinato 15 eventi calamitosi in cinquant’anni. Per questo, infine, vanno contrastati con ogni mezzo lo spopolamento dei borghi montani e i progressivi processi di abbandono delle attività agrosilvopastorali, attraverso l’incentivazione di un’ospitalità diffusa e la promozione di più feconde relazioni tra le aree interne ( lunigianesi e garfagnine ) e la città lineare costiera.
Per una “rinascita” delle Alpi Apuane
Un altro effetto indotto dalla monocoltura del marmo è la desertificazione economica e l’impedimento di ogni altra forma di sviluppo locale (dall’agricoltura alla pastorizia, dall’artigianato al turismo). D’altra parte, dati della Camera del Lavoro provinciale di Massa Carrara del 2014 c’indicano in 2.000 gli addetti attuali (tra diretto e indotto) del settore estrattivo. Mentre erano oltre 10.000 solo quaranta anni fa. Un incessante e irreversibile calo occupazionale, assolutamente disaccoppiato con quella crescente rapacità del prelievo, che abbiamo già descritto. Per questo, è venuto il momento d’invertire la rotta. Per questo, è venuto il momento di dire basta. E’ anche una rivendicazione sindacale, che guarda alla dignità e alla sicurezza dei nostri lavoratori, che hanno pagato fin qui un tributo di sangue troppo alto sull’altare dei profitti delle multinazionali del marmo. Per questo, occorre ripartire dalla centralità dei valori umani e dalle enormi potenzialità che ci suggerisce l’eredità culturale del territorio apuano. Dalle sue competenze, dai suoi saperi, dalle sue vocazioni più intime. Non vogliamo qui postulare improbabili ritorni all’Arcadia. Si tratta, invece, di “liberare” ogni possibile traccia di energia creativa che è latente nel tessuto socio/economico locale. Cercando di riconoscere, rivitalizzare, gestire le relazioni della comunità apuana, mobilitandone le migliori risorse ( individuali e collettive ) in vista di un effettivo sviluppo locale. Non mancano certo dei documenti di riferimento in questa fase, pur convulsa, della storia del nostro Paese: la Convenzione Europea del Paesaggio (2000), la Convenzione di Faro (2005), il Manifesto Strategico degli Ecomusei Italiani (2015).
Pertanto, nella piena consapevolezza che nel distretto apuano vadano oggi preliminarmente riaffermate quelle elementari condizioni di legalità e sostenibilità dell’attività estrattiva, che dovranno sostanziarsi nella progressiva chiusura delle cave intercluse nel Parco e in un “contingentamento” ragionevole e complessivo del prelievo della risorsa lapidea, suggeriamo di seguito un pacchetto di possibili azioni per una effettiva rinascita delle Alpi Apuane:
1. Riconoscere i territori e i paesaggi delle Alpi Apuane come beni comuni, sulla scorta delle documentate e condivisibili direttive contenute nella disciplina del Piano Paesaggistico della Regione Toscana.
2. Promuovere in modo capillare e organizzato la conoscenza dei valori identitari del territorio apuano, anche sulla base delle attività del nascente Ecomuseo delle Alpi Apuane, che ha anche funzioni di Osservatorio locale del paesaggio.
3. Rivalutare e incentivare il ritorno alla montagna, e, quindi, la promozione di tutte quelle attività agrosilvopastorali che alimentano la filiera enogastronomica e, in particolare, le produzioni più tipiche di alta qualità.
4. Restituire centralità ad un Parco Regionale completamente “rinnovato” nella dirigenza, riaffermando limpidamente le sue funzioni statutarie di conservazione della natura e di promozione dello sviluppo sostenibile locale.
5. Sviluppare il turismo sostenibile e la fruizione dei territori apuani, in sinergia col distretto balneare versiliese, decongestionando e destagionalizzando i flussi dalla città lineare costiera verso l’ospitalità diffusa in quota.
6. Porre le basi conoscitive e procedurali, di concerto con le amministrazioni locali, per favorire l’autoproduzione energetica da fonti rinnovabili (geotermia a bassa entalpia, biomasse, microeolico, fotovoltaico, etc.).
7. Favorire la ricerca e l’innovazione, attraverso l’implementazione di relazioni strategiche più solide e continue coi tre poli universitari di Pisa (Università di Pisa, Scuola Normale e Scuola Superiore Sant’Anna). 8. Creare un tavolo di crisi con tutti gli attori del comparto estrattivo, Sindacati in testa, per condividere e ottimizzare gli effetti sociali di una diversa e più sostenibile modalità di prelievo della risorsa lapidea. 9. Creare le condizioni ideali per una nuova economia circolare, che sappia intercettare l’enorme mole di materiali di scarto del distretto marmifero, ai fini di una più virtuosa azione di riciclo nell’industria edile e del restauro.
Il Coordinamento Apuano, nel presentare queste linee comuni di azione, fa sua la filosofia di quell’antico proverbio cinese, che recita: “Quando gli indico il cielo con un dito, lo sciocco guarda il dito” e su questa suggestione, che è innanzitutto morale, chiama tutti a guardare il cielo e ad immaginare le Alpi Apuane finalmente libere dalla distruzione e dall’umiliazione.
Firenze, lì 8 maggio 2016